Di Daniele Conti e Gigi Cotichella
La bellezza che va oltre il semplice apparire, che rende protagonisti e che educa. Una bellezza possibile con radici nell’impegno e frutti nell’incontro.
Proprio in questi tempi di difficoltà economica, in cui le persone risparmiano su tutti i fronti per affrontare l’aumento esponenziale delle spese, sembra che resista un settore per il quale valga la pena sempre spendere: la bellezza.
Nell’epoca dell’immagine, l’uomo contemporaneo pare disposto a rinunciare a tutto, ma non al suo good-looking, come direbbero a Londra. Eppure nei paesi occidentali, dove vige il culto dell’apparenza, si assiste contemporaneamente ad un impoverimento del colore: i colori scuri dominano le mode del costume occidentale e non corrispondono ai colori più vivaci. In più, si sponsorizza una bellezza che sfugge e che muta, perché insegue il flusso mai stabile della moda. Si deve correre per starle dietro, si deve possedere per coglierne il gusto. Con il risultato che si rimane sempre insoddisfatti.
Tutti i giorni noi stessi inseguiamo il nostro sogno di bellezza di fronte allo specchio, talvolta (o spesso) rimanendo delusi dei risultati, anche in considerazione dei notevoli sforzi adoperati. Se si pensa però al perché si faccia tutto questo, la risposta non risiede solo nella volontà di rincorrere una nostra immagine di perfezione, come la moda vorrebbe illuderci, ma anche nel nostro desiderio di rendere speciale il momento che, dopo l’accurata preparazione, stiamo andando a vivere: l’incontro con l’altro. È esemplare il caso della prima uscita con una ragazza o un ragazzo che ci piace: le ore prima dell’appuntamento sono densissime di attesa e di preparazione, cioè di un tempo in tensione verso la bellezza, perché si desidera che l’evento stesso sia un’esperienza unica da condividere insieme. Ma questo non vale solo per un appuntamento romantico. Il ritrovo con gli amici, l’allegria di una festa, il colloquio intimo e profondo con una persona di fiducia, la preghiera con Dio, un dialogo aperto coi genitori e tanti altri momenti sono carichi di una bellezza tutta da vivere. E la loro peculiarità non sta nella ricercatezza egoistica della propria immagine, ma nella dolce spontaneità di essere tale.
Una bellezza da protagonista
Tuttavia perderemmo qualcosa per strada, il meglio forse, se questo bello non toccasse pienamente la nostra persona, se in esso non ci mettessimo qualcosa di nostro, qualcosa che dica: “Questo appartiene a me, l’ho fatto io!”. C’è differenza, infatti, tra il gustare seduti comodi uno spettacolo a teatro, oppure essere i protagonisti sul palco: chi siede è contento e apprezza, chi recita si realizza; cioè sperimenta un livello di bellezza che vive perché pagata con il proprio impegno e la propria fatica. Soprattutto ha speso tempo: un tempo che sa attendere e cogliere l’attimo non in modo passivo, ma secondo uno spirito attivo, che si mette in gioco e si sporca le mani per compiere un qualcosa di grande che superi se stessi.
Per una bellezza che educa
Il bello, dunque, può educare nel momento in cui l’individuo entra a farne parte, spendendo i suoi talenti, che sono le attitudini più soddisfacenti del proprio essere: vivere i propri talenti significa realizzare il bello della propria esistenza. In quest’ottica educare alla bellezza significa proprio stimolare quelle risorse presenti in ogni persona perché queste si spendano nel concretizzare la pienezza della sua vita, la sua realizzazione.
Il bello educa. Ce ne accorgiamo se vediamo le sue caratteristiche. Il bello educa nella cura: curare il particolare e prima ancora la pulizia, l’armonia. L’armonia richiede uno studio approfondito: si possono superare e forzare i limiti imposti, per esempio da accademie musicali o artistiche, ma per farlo bisogna conoscerle. Poi educa nella progettualità, per cui, bisogna mettere in relazione l’estro creativo con la finalità, con la conoscenza dell’utenza. Inoltre c’è un concetto di continuità, espresso dalla “legge delle bacheche” (e ora dei siti): non basta abbellire una sola volta con sforzi sovrumani le proposte, bensì bisogna aggiornarle continuamente per far capire che la cura è praticata e la progettualità concretizzata. Il bello poi fa rima con etico e con responsabile e si coniuga con il verbo “star bene”: è ancora più bello se evita ulteriori rifiuti, se ottimizza le risorse e se riesce a trovare l’incontro, al posto del compromesso, tra utilità e comodità. Il bello infine è comunicativo e quindi, di conseguenza, contagiante: il bello chiama altra bellezza.
Un esempio concreto
Se ne è accorto anche Gabriele Vacis che ultimamente è andato in scena con “La bellezza salvata dai ragazzini”. È uno spettacolo che si fonda sulla naturalezza delle scene non provviste di copione. La comunicazione con il pubblico avviene attraverso il solo movimento dei corpi degli attori, che non parlano (se non per qualche riflessione), ma suonano, danzano, corrono, sostengono un mappamondo gigante, rotolano… insomma vivono. “Abbiamo insegnato loro a vedere quello che guardano e ad ascoltare quello che sentono. Poche parole e la testimonianza nel loro movimento: spettacolo di corpi”. Così rivela in un’intervista a La Stampa il regista, che ha lavorato due anni in questo progetto attraverso laboratori, set ed incontri, il cui obiettivo è stato di rendere partecipi i ragazzi (teatranti e non) nella ricerca e nell’osservazione sul tema della bellezza, inserendoli in un’esperienza a contatto con il mondo dell’arte e della cultura. “Ai ragazzi abbiamo chiesto: qual è il posto più bello per te? E le persone più belle? Domande che chiedevano storie e ce ne sono di grandi”. Ecco, la storia di ogni giovane è protagonista sul palco, le cui scene vivono della loro personalità e dell’essere semplicemente loro stessi: e il tutto genera un sapore di bellezza autentica.
Come a dire che la bellezza educa, a patto che tu liberi la bellezza che è dentro di te nella tua quotidianità. Questo è il compito di ogni uomo; questo è il compito da sostenere e aiutare da parte di ogni educatore.