DOMANDE MONDIALI PER CULTURE MONDIALI
di Simone Lotrionte
La mondialità come incontro di culture la viviamo ogni giorno.
«E poi ti volevo solo dire che i ragazzi sembrano un po’ “strani”, forse non riusciamo a comunicare al meglio. Però magari possiamo trovare delle soluzioni, insieme».
«Beh, vedete, non credo sia un problema di comunicazione. Qui il problema serio è stato quello della dittatura. Nessuno si fa più mettere i piedi in testa. I genitori mandano i figli a scuola dicendogli che non devono mai farsi dare regole da altri. Qui non è come in Europa, qui il rispetto dell’autorità non esiste. Benvenuti nel mondo reale!».
Chiudiamo la porta della direttrice di una scuola elementare e media di Buenos Aires.
Monta la rabbia. Poi, le domande.
Il mondo reale?
Sì, Buenos Aires, con i suoi milioni di abitanti, un’area vastissima occupata e un numero infinito di situazioni assurde, positive, negative, destabilizzanti, convincenti, misteriose, fantastiche, a far da cornice tutti i giorni. La gente si saluta per strada, non fa finta di non vedersi.
Le persone sentono in maniera amplificata; sentimenti che sono forti ed estremi in bene e in male: se sono con qualcuno che mi piace in un bel posto non mi limito a sentirmi bene, ma sono strafelice! Se qualcosa non mi convince… non sono scettico, sono disperato!
Ma è anche vero che il mondo reale è qui, a Torino, dove saremo un po’ di meno, per carità, ma qualcosa di emozionante ancora succede!
In Europa c’è il rispetto dell’autorità?
Immagino i lettori di questo articolo, gli insegnanti, gli educatori: ci facciamo una risata?
Il rispetto dell’autorità non esiste nelle scuole argentine come nelle nostre. Ma nel tempo in cui sono stato in Argentina ho notato che non esiste differenza (come invece succede ormai da molto qui in Italia) tra la parola “autorità” e la parola “autorevolezza”. Nella lingua locale non esiste proprio la parola “autorevolezza”.
Il problema è stato la dittatura?
È vero, il problema dell’Argentina potrebbe essere stato quello della dittatura. Quella di Videla, che ufficialmente ha fatto sparire 30000 persone nelle acque dell’oceano o chissà dove altro, tra il 1976 e il 1981. Quel periodo in cui ogni vicino di casa poteva essere una spia mandata da fantomatici nemici e dove si doveva fare attenzione a qualsiasi parola.
Però… è davvero questo che ha segnato l’educazione? E se l’ha fatto, questo è successo solo per quanto riguarda l’educazione nel contesto argentino?
Allora come mai la tendenza di un genitore a consigliare ai figli: «non farti mettere i piedi in testa da nessuno» rimane forte ovunque?
Ecco, allora mi pare che la frase della direttrice racchiuda davvero il problema che abbiamo con la mondialità: cercare di giustificare il nostro angolo di realtà passando da un confronto mondiale. Ed è lo stesso problema in cui si scivola tutte le volte che si cerca di dare spiegazioni “antagoniste”, come ho appena fatto scrivendo affermazioni che fanno da contraltare a quelle della direttrice.
Qual è allora la soluzione della mondialità e dell’incontro di culture?
L’educazione, come sempre, causa prima di ogni azione. La comunicazione, effetto primo di ogni pensiero.
- A cominciare da noi stessi: cercare il positivo, le informazioni pure, il buono. Trovare anche il negativo e avere la forza di criticarlo.
- Comunicare con il resto del mondo, ma veramente! Una volta si usava corrispondere per lettera: carta e penna. Adesso abbiamo una connessione globale immediata: la usiamo abbastanza per sentire davvero quali sono i problemi di uno che vive dall’altra parte dell’oceano?
- Infine, ma non ultimo, educarci come comunità, uscendo dall’impasse del pensare che nel resto del mondo le cose vadano molto meglio e che quindi nel posto in cui viviamo non potremo mai far niente. La mondialità si pluralizza e diventa “le mondialità”.
Ci sono dei mondi da cui passare, prima di arrivare allo sguardo globale.
Pensare di essere in difetto, nel nostro mondo reale, che sia Buenos Aires o Torino, rispetto a qualcun altro, è il primo passo per trovare delle scuse ed entrare in passività. Entrare in passività significa accontentarsi, poi deludersi.
Significa infine illudersi che vivere in altri posti, diversi dal proprio mondo reale, cambierà di certo le cose, perché lì va tutto meglio.
La mia impressione, personalissima, è che questo non sia vero. Le stesse situazioni ci si ripresenteranno, magari con cause differenti. E ci renderemo conto che nella nostra città natale, a Buenos Aires, l’istruzione è gratuita per tutti, dall’asilo fino alla laurea; che la città è un laboratorio gratuito sempre aperto, di teatro, di arte, di ballo, di sport. E che in quella stessa città, a scuola si possono creare spettacoli fantastici partendo da zero anche con quei gruppi classe che all’inizio sembrano “un po’ strani” e con cui la lingua sembra un ostacolo. Si scopre infatti che l’ostacolo è sempre lo stesso, ed è “miniculturale”: entrare in un gruppo per farlo lavorare significa entrare nella sua cultura particolare e, in ogni caso, sconvolgerla.
E questo è un problema anche quando entriamo in classe a Torino.
La mondialità come incontro di culture la viviamo ogni giorno.